Il libro sarà presentato domenica 13 maggio alle ore 18,00 presso la Sala Consiliare della Rocca Dei Rettori.
Si tratta dell’anteprima nazionale del giovane autore, che dichiara di non avere la pretesa di aver scritto “un vangelo, ma un diario, non un’antologia ma un tentativo di restituirvi le emozioni nascoste in canzoni di cui conosciamo ancora oggi i ritornelli a memoria”. Oltre agli autori, interverranno Ernesto Razzano, critico musicale, Carlo Panella, direttore “Il Vaglio”. I saluti saranno affidati a Francesco Maria Rubano, vice presidente della Provincia di Benevento. Modererà la giornalista Anna Liberatore. L’iniziativa gode del patrocinio della Provincia di Benevento e del Conservatorio Statale di Musica “Nicola Sala” del capoluogo sannita. Prima della presentazione abbiamo intervistato uno dei due autori, Mario Martino.
Nell’introduzione riferite del passaggio dal blog “ Derivati sanniti” al libro “Faber” e dite: “il passaggio è avvenuto con la vergogna di esporsi”. Vergogna perché? Cosa cambia nel passaggio?
Non vorrei che questa affermazione fosse fraintesa. Nel passaggio dallo schermo al libro si passa da uno status ad un altro del testo. Fino a quando si è trattato di una rubrica online sapevamo che i lettori sarebbero stati prevalentemente nostri amici, al massimo conoscenti. Mettere sul mercato dell’editoria un volume vero e proprio significa dare uno status completamente diverso al volume e destinarne la lettura, potenzialmente, al mondo intero; questo ci ha fatto tentennare inizialmente. Insomma, quella costruttiva timidezza tipicamente adolescenziale, che spesso sfocia in ingiustificata vergogna, stava per farla da padrona, ma la passione per Faber è stata di gran lunga più forte.
Qual è l’obiettivo del libro?
Il libro, come spiegato nell’introduzione, non si pone alcun obiettivo e noi come autori non ci poniamo nessun obiettivo. Il volume rappresenta semplicemente la volontà di raccogliere un dispendioso lavoro che altrimenti si sarebbe perso nel mare magnum delle cyber-produzioni. Come affermato nell’introduzione: il volume non vuole ergersi a strumento preciso di interpretazione o esegesi dei complessi brani di De André, ma semplicemente vuol restituire le emozioni che noi abbiamo letto in canzoni che moltissimi italiani cantano a memoria.
“Per quanto voi vi crediate assolti/siete per sempre coinvolti” è nel refrain de ”La canzone del maggio”, scritta nel 1968 (dalla Chanson de vu est concerné di D. Grange) e fa riferimento a quanti, nel ruolo sociale o politico che rivestono, possono agire ma restano indifferenti. Pur non amando dare sfoggio della propria cultura, pensate che il Faber si sia ispirato agli ignavi di Dante? Quel Dante già citato ne “Al ballo mascherato” dove è assimilato ad un invidioso che spia Paolo e Francesca.
Sicuramente tra i brani di Faber c’è un filo rosso ben preciso, ma non dico nulla di eclatante o di nuovo. La storia di ogni album ha un collegamento col precedente e col successivo. “La canzone del maggio” si trova all’interno di “Storia di un impiegato” che è lo stesso album in cui è inserita “Al ballo mascherato”. In ordine di incisione “Al ballo mascherato” segue “La canzone del Maggio” quindi credo che ciò potrebbe effettivamente avvalorare la tesi che hai posto e rendere possibile un collegamento tra gli ignavi condannati da Dante e i “distanti” e gli “indifferenti” condannati da De André. Stando a questa interpretazione il Dante cui fa riferimento ne “Al ballo mascherato” potrebbe essere l’elicitazione definitiva del riferimento. Insomma, ogni volta che parlo di una canzone di De André scopro un nuovo collegamento; la grandezza dei poeti è tutta qui.
La critica che De Andrè muove a quelli che, come voi scrivete, “hanno paura di guardare in faccia il cambiamento” la rivolgerebbe, apertis verbis, ai politici del nostro tempo?
Più che ai politici è una critica che rivolgerei a buona parte della società del mio tempo. La politica è sempre lo specchio della società e se abbiamo politici che “hanno paura di guardare in faccia il cambiamento” significa che questa è una paura nostra che la politica non fa altro che amplificare, istituzionalizzare.
Nella “Storia di un impiegato” lo stesso De Andrè ebbe a dire:” [volevo]…dare del Sessantotto una lettura poetica e invece è venuto fuori un disco politico e ho fatto una cosa che non avrei mai voluto fare: spiegare alla gente come comportarsi”.
Nessun intento moralistico o didattico dietro le sue canzoni, insomma, sulla scia di tanti grandi letterati, ma di fatto in tutti i suoi testi c’è critica sociale, se non diretta, veicolata con velata ironia o sfumature lessicali. Come si concilia il suo non-intento con ciò che nei fatti ha realizzato, tanto da meritare un posto nelle antologie di letteratura italiana?
Io credo che parlare, poeticamente o meno, di una società significhi inevitabilmente fare un discorso politico perché la nostra organizzazione sociale è politica fin nel midollo. De André, si capisce chiaramente che non aveva intenti politici, ma credo abbia dato troppo per scontato in quel caso la profondità e la capacità critica dei sessantottini che, giustamente, avevano bisogno di tutt’altro che di una lettura poetica e così hanno proiettato il loro bisogno di rottura sociale e politica su un album che è di fatto una vera e propria raccolta di poesie, ecco perché merita un posto nelle antologie letterarie.
Ne “Il bombarolo” De Andrè fa dire al giovane ventenne “Vi scoverò i nemici”. Il riferimento è ai nemici dello Stato, dichiarati distanti dalle istituzioni e dal potere. “Il bombarolo” dimostrerà invece la “ignobile collusione tra i “nemici” e lo “Stato-Pinocchio”. Quest’anno ricorre il quarantennale dell’assassinio di Aldo Moro. Cosa pensate potesse scrivere De Andrè al riguardo?
E’ una domanda che mi pongo il 9 maggio di ogni anno: cosa pensava De André di tutto ciò? Poi, dal momento che riferimenti espliciti al caso Moro non ce ne sono mi “consolo” pensando che lo aveva anticipato ne “Il Bombarolo” e nei versi di questa canzone proietto l’idea che i nemici dello Stato di cui parlava sono eterni, sono gli stessi che hanno condannato Moro, che hanno ucciso Falcone e Borsellino.
Tanti i temi trattati da De Andrè e spesso riconducibili alla condanna dell’omologazione in tutte le sue forme. Come da voi riportato nelle pagine del vostro libro in “Fiume Sand Creek” l’artista denuncia il genocidio degli indiani d’America; in “Andrea” dedica la canzone agli omosessuali e ricordò che già Platone li aveva definiti “figli della luna”; in “Bocca di rosa” esalta la donna appassionata dell’amore e denuncia il perbenismo, in special modo quello della provincia. E’ questa la chiave di lettura dell’attualità di De André a distanza di diciannove anni dalla sua morte?
Si, credo che sia ancora più che attuale la critica all’omologazione. D’altronde il tema è davvero sempreverde. Non ricordo una sola fase storica, dalla comparsa dell’uomo sulla terra ad oggi, in cui non ci siano state omologazioni forzate. Oggi Faber, purtroppo, avrebbe ancora di che cantare a tal riguardo.
Cosa pensi della fiction realizzata dalla Rai?
L’ho vista in anteprima al cinema e devo confessarti che mi è piaciuta l’interpretazione di Marinelli, ma mi aspettavo un lavoro registico completamente differente. Credo che tutti i grandi appassionati di De André erano curiosi di conoscere la genesi dei brani piuttosto che le dinamiche delle fughe d’amore o le ragazzate di Faber. Avrei dato più spazio alla produzione che al gossip, tutto qua.
Sonia Caputo
:: Questo articolo è stato stampato dal quotidiano online ilQuaderno.it ed è disponibile al seguente indirizzo:
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