In questo periodo di aumenti dei prezzi a livelli che non si vedevano da decenni, si è riacceso il dibattito su cosa stia originando l’inflazione. Generalmente, la teoria economica dà tre spiegazioni diverse a seconda della situazione.
Da dove origini l’inflazione è domanda che non ci ponevamo da molto tempo. Oggi è forse la domanda più frequente nell’opinione pubblica. Eppure la stessa teoria economica non è univoca nello spiegare questo fenomeno. Possiamo sostanzialmente dire che esistono tre tipi di inflazione e quindi altrettante teorie: inflazione di origine monetaria; inflazione di origine reale; inflazione di origine fiscale.
Si sostiene spesso, seguendo la famosa proposizione di Milton Friedman, che l’inflazione sia tipicamente un fenomeno monetario: troppa moneta insegue una quantità troppo scarsa di beni. L’inflazione monetaria può spiegarsi intuitivamente con un semplice esempio, quello del gioco del Fantacalcio.
Supponiamo che due bambini, Paolino e Pietro, si sfidino per l’asta del Fantacalcio. Sono dati loro 100 euro fittizi, con i quali devono acquistare undici giocatori per formare una squadra di calcio. All’inizio, supponiamo, viene messo all’asta Messi. Nella loro ingenuità i bambini si rincorrono nelle offerte per conquistare il giocatore più pregiato, il quale finisce per essere venduto, dopo varie contro-offerte, ad un prezzo di 60 euro. Poi viene messo all’asta C. Ronaldo, che supponiamo venga venduto ad un prezzo di 70 euro. E così via.
Velocemente i bambini si guardano e capiscono di avere quasi esaurito il proprio budget (ricordiamo che la squadra deve essere di undici giocatori). E quindi chiedono: invece di 100 euro iniziali, perché non possiamo avere 200 euro, così saremo in grado di acquistare non solo Messi, ma anche gli altri dieci giocatori?
Di fatto ciò che i bambini stanno chiedendo è di stampare più moneta, con lo scopo di poter acquistare più giocatori. Ma che cosa non quadra logicamente nel ragionamento di Paolino e Pietro? Ovviamente se la disponibilità iniziale di moneta fosse 200 invece che di 100 euro, il prezzo finale di Messi non sarebbe di 70 euro, ma presumibilmente un prezzo doppio, cioè 140 euro. Di fatto il potere di acquisto di Paolino e Pietro rimarrebbe invariato.
In tal caso diciamo che la moneta è completamente neutrale. Stampare più moneta in termini nominali non permetterebbe a Paolino e Pietro di acquistare più giocatori, perché l’incremento nel livello dei prezzi lascerebbe invariata la quantità reale di moneta. L’inflazione si spiega dunque interamente con le variazioni nella quantità stampata di moneta.
Affinché l’inflazione sia interamente spiegata dal lato monetario, come visto sopra, è necessaria un’ipotesi centrale: che i prezzi siano perfettamente flessibili, cioè si aggiustino istantaneamente, un po’ come i prezzi delle azioni contrattate in borsa. Al raddoppiare della quantità nominale di moneta stampata, se i prezzi a loro volta raddoppiano immediatamente, la moneta non ha effetti reali, e variazioni nell’offerta di moneta si riflettono solo in maggiore inflazione.
Nella realtà i prezzi di beni e servizi che consumiamo, dalle mele alle assicurazioni, non sono perfettamente flessibili, bensì si aggiustano molto gradualmente (si stima che in Europa la durata media di un prezzo di un generico bene nell’economia sia di circa undici mesi).
Perciò l’inflazione non può spiegarsi solo in funzione degli aggregati monetari. Nel breve periodo, l’inflazione è in realtà guidata da due motori principali. Il primo è il motore dell’attività economica reale (e quindi dell’andamento dei costi delle imprese); il secondo è il motore delle aspettative.
L’andamento dei costi ha un impatto diretto sull’inflazione di oggi. Maggiore efficienza produttiva riduce i costi marginali di produzione e contribuisce ad abbassare l’inflazione. Un incremento dei costi dell’energia impatta invece in modo diretto sull’inflazione.
Le aspettative di inflazione (il secondo canale) determinano l’inflazione corrente attraverso i contratti salariali. I salari sono fissati in termini nominali sulla base di contratti pluriennali. Se lavoratori e sindacati, guardando al futuro, si aspettano inflazione (cioè prezzi in crescita) al momento della contrattazione cercheranno di proteggere il potere di acquisto del salario nominale (espresso in euro), e richiederanno aumenti che si trasferiranno sul costo del lavoro per le imprese, le quali a loro volta trasferiranno tali aumenti dei costi sui prezzi.
Entrambi i canali, quello dei costi reali e quello delle aspettative, sono largamente attivi oggi, e spiegano sia l’impulso iniziale dell’inflazione (canale dei costi) sia la sua persistenza nel tempo (canale delle aspettative).
Non esistono però solamente l’inflazione monetaria e l’inflazione reale. Esiste anche quella che possiamo definire inflazione fiscale. Di inflazione fiscale si parla molto meno nel dibattito pubblico. L’inflazione origina dal lato fiscale quando gli agenti economici perdono la fiducia nella volontà (e/o capacità) del governo di stabilizzare il livello del debito pubblico nel futuro. Se gli agenti percepiscono che il deficit di bilancio (la differenza tra tasse e spesa pubblica) sia fuori controllo, si aspetteranno che prima o poi la stabilizzazione del debito risultante avverrà attraverso una “tassa monetaria”, che altro non è che la tassa di inflazione. L’inflazione infatti è in tutto e per tutto una tassa, perché erode nel tempo il potere di acquisto di un euro tenuto sotto il materasso.
In tale scenario, di cosiddetta dominanza fiscale, anche una banca centrale credibile e indipendente perderà il controllo sull’inflazione, che sarà determinata dalla necessità di stabilizzare un andamento del deficit pubblico fuori controllo.
È difficile dire quanta parte dell’inflazione di oggi sia di origine fiscale. Sicuramente questa componente è importante negli Stati Uniti, dove le politiche fiscali ultra espansive dell’amministrazione Trump prima e Biden poi potrebbero aver minato la fiducia nella credibilità della politica fiscale in generale. Inoltre, è difficile immaginare che l’inflazione americana sia di origine reale (cioè da costi) vista la limitata esposizione dell’economia degli Usa ai prezzi dell’energia importata.
Ma anche in Europa le politiche fiscali adottate durante la pandemia (trasferimenti, cassa integrazione) hanno sostenuto la domanda in modo robusto. Di fatto i paesi dell’Unione operano in un regime in cui le regole del Patto di Stabilità sono sospese. Gli agenti economici potrebbero aver perso la fiducia sul quadro di sostenibilità futura delle politiche fiscali in Europa. Non è certo da escludere che questa componente sia tra le cause della persistenza dell’inflazione nel continente, con la Bce di fronte ad un dilemma per niente facile da gestire.
Tommaso Monacelli - professore ordinario di Economia all'Università Bocconi di Milano - per gentile cortesia www.lavoce.info
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