Una volta gli immigrati eravamo noi. Storia di Moussa

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Abbiamo raccolto una bella storia, segnalataci da una nostra attenta lettrice, mossa dall'intento di evidenziare i rischi legati all'assenza di un dialogo interculturale che ha come unico effetto quello della intolleranza e della discriminazione. La privazione di tutti i vantaggi delle aperture culturali - spiega infatti - favorisce, sovente, violenza, conflittualita' e scontro.

Quella di Moussa è la storia di un ragazzo venuto dall'Africa con il cosiddetto barcone. Un viaggio durato tre giorni in condizioni disumane rischiando una morte atroce. Dov’è la novità? Come lui tanti. Questo è vero, quanto non è meno vera la frase “Meglio morire in mare che stare in Libia. In mare si muore una volta sola, se stai in Libia e' come se morissi tutti i giorni”.

Non si può e non si deve restare indifferenti. Ma la prigionia in Libia è solo uno degli ultimi tasselli di questa storia. Oltre alle sofferenze voglio raccontare una storia di integrazione, dove le diverse culture si incontrano arricchendosi vicendevolmente, trasformandosi tramite processi di scambio. Facciamo qualche breve passo indietro.

Moussa Mbaye classe 1996 nasce in un paesino nella provincia di Touba, in Senegal, dove vive con la madre e i fratelli, mentre il padre coltiva altre relazioni coniugali come consente la legge del paese. Frequenta la scuola coranica tradizionale che si rivela, sin dalla tenera eta', fonte di abusi e atrocita'. Di fatto il ragazzo era costretto all'accattonaggio per le strade proprio dai suoi insegnanti. Negazione dei suoi diritti, dei diritti di un minore e assenza totale di ispezioni ufficiali per perseguire i responsabili di questi abusi costituivano la normalità per il piccolo Moussa che, affrontava tutto con un coraggio e una dignita' inconsueta per quella età.

La sua forza, afferma, e' stata sempre sua madre, Dayla. I suoi sorrisi,i suoi abbracci, i suoi baci che gli consentivano di affrontare qualsiasi angheria e supplizio. Una forza che ben presto viene a mancare.

Alla morte della madre, la seconda moglie del marito, prende le redini in mano della famiglia. E' il periodo di nuovi soprusi, prevaricazioni, sopraffazioni e violenze. Dopo pochi mesi dalla scomparsa della madre, Moussa, viene cacciato di casa. E' solo, ancora non maggiorenne e povero. Decide di partire, assieme ad un amico (Omar Mbaye) ''nato per essere un fratello nelle avversita'', per la Mauritania. Qui trova lavoro come venditore ambulante di stoffe e vestiti. Vestiti, che egli stesso cuce prima di vendere.

Il profitto essendo misero serviva a malapena per sostenere le spese di affitto di una casa in condivisione con altri 16 migranti provenienti dalla parti piu' disparate dell’Africa. Si immaginino le condizioni igenico-sanitarie in cui versava la situazione coabitativa. L'unica speranza era la Libia. Andare in Libia.F orse non immaginando, forse non sapendo, forse armati solo dalla speranza di sopravvivenza.

La Libia che a tutt'oggi non ha mai ratificato la convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati e dove, di norma, la stragrande maggioranza di migranti e rifugiati viene incarcerata arbitrariamente senza essere icriminata.

Ebbene, continua il racconto di Moussa, “abbiamo viaggiato in macchina nascosti sotto ai sedili. Ascoltavamo il silenzio della morte''. Morte che senza indugio, si palesa sotto forma di schiavitù agghiacciante, durata all'incirca 6 mesi. ''Eravamo ammassati in capannoni bui, sporchi, dove si perceviva forte calore. Io avevo a disposizione solo una piccola coperta sudicia appoggiata sul pavimento che mi consentiva di dormire seduto. Non potevo allungare le gambe non c'era spazio. Ero circondato da spazzatura e deiezione in quanto le latrine erano intasate o non disponibili. Di giorno ero costretto ad un duro lavoro nei campi dove venivo fustigato e seviziato al minimo accenno di stanchezza. Al rientro mi era concesso un tozzo di pane ed un solo bicchiere d'acqua. Provo ancora vergogna quando ripenso al fatto di essermi urinato addosso in quanto era l'unica opportunità per espellere e soprattutto ricordo i pidocchi che mi circolavano di notte sul corpo, in testa e nelle parti intime”.

Poi la fuga. Una situazione straordinaria concesse una via d'uscita. Una rivolta alla quale Moussa partecipa senza violenza non avendo nel cuore, nonostante tutto, il rancore o la rabbia per il male subito.
Attraverso vari autostop il ragazzo, appena ventenne, riesce ad arrivare a Tripoli. Qui riesce a trovare lavoro nel porto. Bisogna guadagnare per pagarsi il viaggio infernale. Immediatamente entra nelle simpatie del suo datore di lavoro per l'abnegazione e spirito di sacrificio. Moussa, paradossalmente, non pensa a sé ma agli altri emigranti donando quello che percepisce. Pensa a Omar Mbaye, il suo amico che fuggito con lui stenta a trovare i soldi per il maledetto imbarco. Arriva il giorno della partenza. Moussa non ha soldi, ha donato tutto. E' felice, almeno, di vedere che Omar riuscirà a fuggire da quell'inferno. Omar parte e troverà la morte in mare. I suoi genitori ancora oggi reclamano il corpo.

Si organizzano altri sbarchi e Moussa viene imbarcato gratuitamente dal suo datore di lavoro a testimonianza delle sue buone azioni. Dopo tre giorni arriva a Bari dove, dopo aver ricevuto i soccorsi di primo intervento, crolla in un sonno profondo durato ben 3 giorni. Lo credevano morto. E invece, lentamente, stava tornando alla vita. Ed è da qui che vorrei iniziare a raccontare. Ed è da qui che vorrei testimoniare la forza di chi vuole ricominciare.

Dopo un lungo periodo di depressione in cui rifiutava il cibo perchè riviveva le scene di brutalità, sopruso e durezza, cerca di reagire. Si iscrive alla scuola primaria. Consegue sia il titolo di quinta elementare, sia quello successivo di terza media. Prende altresì la qualifica di cuoco con la quale inizia a lavorare. Attualmente frequenta la scuola guida. In palestra, dove e' iscritto regolarmente, è riconosciuto da tutti come persona civile, ossequiosa, ben educata e sempre disponibile ad aiutare gli altri.

Nel giugno del 2019 conquista la copertina di un giornale partecipando ad una manifestazione di fitness.

Daniela Piesco



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